Corti del Nord e del Sud (1333-1392)
Per ironia della sorte, le strepitose vittorie militari degli Hojo contro i mongoli segnarono l’inizio della loro fine. Al termine di una guerra puramente di difesa non vi era infatti un bottino con cui ricompensare i vassalli ed i loro eserciti che per trent’anni si erano impoveriti per tenere in piedi l’apparato militare. Richieste ancor più pressanti giungevano dai monasteri che volevano essere ricompensati per la vittoria di cui si attribuivano il merito: non era grazie alle loro preghiere che gli dei erano intervenuti mandando il Kamikaze? Gli Hojo si trovarono nell’impossibilità di soddisfare tutte queste richieste e persero così il favore popolare.
Di questo malcontento approfittò l’imperatore Go Daigo per cercare di riacquistare potere: egli come primo passo cercò di sbarazzarsi dei monaci della setta tendai che per conto di Kamakura controllavano la corte imperiale, ma le sue milizie furono sconfitte. Cercò allora di allearsi con gli altri monasteri buddisti ed a questo punto il governo di Kamakura mosse in armi contro l’imperatore e lo esiliò nell’isola di Oki. Di lì a poco Go Daigo riuscì a fuggire e lanciò un appello a tutte le forze leali all’imperatore: la maggior parte dei feudatari si schierarono dalla sua parte, non tanto per fedeltà quanto per combattere i detestati Hojo. Si formò una potentissima armata, comandata da Ashikaga Takauji, che rimise l’imperatore sul trono, mentre un’altro feudatario, Nitta Yoshisada dava alle fiamme Kamakura cacciandone gli Hojo.
Go-Daigo prepara i suoi piani
Ashikaga, discendendo dalla famiglia dei Minamoto, poteva aspirare al titolo di shogun, ma l’imperatore non seppe mantenere il favore delle grandi case militari e tornò invece a favorire la vecchia aristocrazia, perdendo così l’appoggio del suo miglior generale. Ashikaga infatti, vistosi messo in disparte, approfittò abilmente di un tentativo degli Hojo di riconquistare Kamakura, li attaccò con proprie truppe e dopo averli sconfitti entrò nella capitale con l’esercito vittorioso e vi si insediò autoproclamandosi shogun. Divenuto ormai un ribelle, attaccò a più riprese le residue forze imperiali, comandate da Nitta Yoshisada e dopo alterne vicende riuscì infine a sconfiggerle. Entrato vittorioso a Kyoto costrinse l’imperatore ad abdicare in favore di un’altro ramo della famiglia imperiale ed a consegnare al suo successore le tre insegne del potere imperiale, lo specchio, i gioielli e la spada.
Ma a questo punto avvenne uno dei più sorprendenti colpi di scena della storia giapponese: dopo due mesi Go Daigo riuscì nuovamente a fuggire, si rifugiò sui monti Yoshino e da lì proclamò che la dinastia proseguiva con lui perché le insegne che aveva consegnato non erano quelle autentiche, ma soltanto delle imitazioni: egli solo deteneva i veri gioielli.
Per circa sessant’ anni si ebbe così una corte del nord a Kyoto ed una del sud a Yoshino fino a quando il terzo shogun Ashikaga, il geniale Yoshimitsu, non riuscì a convincere il sovrano del sud a consegnare le insegne al sovrano del nord. Nonostante sia stata quindi la corte di Yoshino a cedere a quella di Kyoto, la storiografia ufficiale giapponese considera imperatori legittimi solo quelli di Yoshino, poiché solo loro detenevano gli autentici simboli imperiali. Questo dà un’idea dell’importanza che i giapponesi attribuiscono a queste insegne ed alla tradizione che esse rappresentano.
Ashikaga Takauji